Estate

Specialmente d'estate una voce nel vuoto la notte rallenta e diventa un fascio di odori loquace: svegliarsi | un semplice gesto, commesso da un urlo di sbagli. Di pietra, in un pozzo il rumore diviene uno stagno, il paese di Alice, uno sguardo | perduto, già prima di avere congiunto le mani nel blu disperato del vuoto di fronte, già rima e poi dentro, cocciuta, felina, cucita nel fuoco e tradita da un uomo che in questa | città sopravvive, di questa furbissima quiete un abbaglio, che in quella mediana distrugge e rapina. Qui, il silenzio divide chi infligge, chi spinge nel solco di un corpo, con forza, attraverso la scorza, chi drena e rintana ogni cosa. L'accento sfiorito, lacerto ventoso e notturno, che tutto prepara: agrumi negli occhi, senile e coriaceo lamento dei giorni passati, a penare sotto chili e fatica d'istinto e d'amore, imene o scogliera di monti lontano da raggiungere ancora: somiglianze o ricordi di ferro battuto nel piano beato, di cera, sgocciolìo nelle stanze. Lui, che avrebbe voluto parlare del mondo, di un uomo al compasso tracciando la rotta, con ogni suo mezzo, di un foro mi ha detto, al centro di tutto, attraverso cui ha visto la nuca | del mostro. Ora a stento cammina sui sassi, tirati da giovani amici, perduto il suo sogno, confuso, ritratto, ha issato un pennacchio nel cielo dei giorni presenti | alzato, fra gli occhi lo sguardo del sale, fra i gesti il suo scettro scolpito nel marmo, s'infrange nel viso il suo vecchio bersaglio. Si stacca di colpo, lo abbracci, si allunga, rigonfia speranza, bianchissima vela, dove il gesto non riesce e la luna si tace, mentre l'anima lieve mente si è fatta | di carne. Ma non parla di pace, non più si contorce a tutti rincara la dose di mezzo, ma tace sul resto. Alla fonte s'abbevera e aspetta che il tempo gli prenda anche l'ultima voce. In gola la forza di un nodo che avvolge la sola bestemmia non detta lo tiene un abbraccio lunare, coraggio di luglio, con quello che resta, mi ha chiesto se posso portargli da bere. Stanotte è più forte, del sogno sognato il terrore, che venga domani, che tutto scompaia in sudore sprecato, era il suo? Era il mio? Era il nostro? Era quello gli han detto di un luogo in cui il mondo gli avrebbe risposto: "Son io, ti ricordi? Passavo per caso ma ho visto un cancello, una siepe, un recinto di foglie, ho suonato e pregato ci fossi". Non voglio, non devo e non posso avverarlo davvero, coltello arrotato su pietra corrosa dal senso del nostro, che i campi costringe in giardino e il letto di spine in odore di rosa. Riprenda con forza, coraggio il suo corso, in cielo risplenda l'immane profonda adorata vergogna che guida chi osserva e conserva l'impegno del giorno, in cui tutti saranno cogli occhi sul vetro di là da quel foro, felici, statuari e commossi: ciò che ora ci sembra perduto e che allora sarà di ritorno, come i rospi tra i fossi. Prima che venga il mattino, che il sole rotondo scorpione nel cielo s'insabbi di nuovo fra nubi di felce argentata e i suoi mille silenzi diventino chele | prometti, sarai ancora quel giovane forte, quel piccolo scoglio immortale da cui possa gettarmi un bel giorno dentro al cielo nel mondo, nascondendo il rumore che ai polsi costringe il tuo pianto, potrai allora fare a meno di quelle parole catene invisibili ai piedi del sole, al tuo fianco. Pensiero fedele il tuo cenno marino | come il vento che di quello di rado trascina l'odore, il tormento, l'infinito non essere ancora, ed ancora il destino passare | di mano. La luna sarà sempre la stessa, la luna che sempre sprigiona. Sia in questo momento | o sia altrove dove il cibo non manca, dove la fine e l'inizio dimora, dove l'argine secca ogni dubbio, dove i morti sorvegliano tutto. La luna, la stessa, il cielo più immenso, e un toro galleggia sul bordo di un sogno, più vergini intanto si stanno tacendo, son giunte caparbie sul ciglio, sapranno evitare l'abisso? Dal fondo del vuoto le guardo: non fingono abbagli di agosto. Noi che siamo soltanto un risveglio della semplice luce, noi che abbiamo tenuto, temuto e tirato coperte, lenzuola, inverni e sfuocate parole, strisciato di fuori per qualche secondo. Noi che abbiamo sepolto e tagliato, rimosso, addestrato e difeso, noi che abbiamo citato solo un rigo di prosa per poi fingerci acrobati di un litigio increscioso, noi sappiamo lo sforzo, conosciamo il suo morso la fatica e la fame, il tenore di vita che gli altri dicevano perso. Il tarlo ed il centro nervoso | di un piccolo sbaglio, noi che siamo tornati, e che non torneremo, noi che abbiamo adorati gli amici ingoiandoci il morso. Ora sappiamo anche dire sappiamo tacere, e rifare ogni cosa, rifacendo da capo da dove ci han detto "non siamo". Noi siamo frammenti fra i denti di un cane randagio e per questo ringhioso, siamo piccoli ignoti passanti | e davanti sullo schermo degli occhi, la pace. Fragilissimi, obliqui, siamo voci sospese in ascolto, abbiamo lingue inchiodate, intarsiate nel legno, abbiamo scelto la scena in cui stare a parlare del nulla, ad aprire la porta ad un rantolo insonne, spalancando la boria ancestrale, per quanto fuggire sia stata la sola | risposta al migliore. Qui, molto è successo, perpetuo l'inganno è caduto, l'impulso frenato, la notte sarebbe bastato durasse per sempre, | per tutta l'estate. Qui tutto è finito e tutto ha capito. Chissà quante volte avrà detto, avrà fatto quelle stesse identiche fragili mosse, chissà quanto ancora avrebbe taciuto o saputo tacere? Chissà se gli ho offerto da bere: gli è piaciuto? Ha creduto di dire? Se fermo nel tempo è accaduto. Noi, non siamo ciò che non siamo, questo solo mi ha detto, proseguire in favore del vento, questo, | è il nostro cammino. <Cognento, 19 luglio 2003>
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