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Sono un bambino forgiato dalla malinconia, la musica tutto intorno mi sorride e inebria la notte, un orgasmo fra le stelle, la madre di ogni mio disastro lessicale come dell’abisso lo sguardo assordante sulla mia presenza, la sentenza di un potere grammaticale. La mia anima ha pareti tinte d’azzurro tanto che a guadarla negl’occhi attentamente sembra di vedere il cielo, è il ventre dove la brezza soffice di un orizzonte passa e conduce il tempo fino in fondo dentro un bacio prima del collasso. Sono un peluche, un caleidoscopio con cui farsi l’orsa maggiore in autostop, la galleria Vittorio Emanuele in un completo grigio azzurro di vecchi “come va?” che non hai mai comprato a tuo marito. Di questi tempi me ne sto fra le vetrine e ammiro la pazienza dei manichini. Ho il porto d’armi, un'estetica solitaria fra il sangue e i sogni ormai rappresi, come un cecchino tra le favole, da sempre miro al cuore, da quando la morte si compra ai saldi con la visa. E non serve a nulla ricordare il punto esatto, si sbaglia mira, si sbaglia e basta. Bisogna d-e-i-s-t-i-t-u-z-i-o-n-a-l-z-z-a-r-e le comodità cucite sotto la nostra pelle, quelle di velluto, graffiate appena da un saluto oblique tra le voci di qualcuno, dentro. Prendere per mano il proprio orgoglio portarlo a fare pipì quando ne ha bisogno: il migliore amico dell'uomo non abbaia più. Morde. Niente più respira, niente più cammina l’aria è tornata antica, senza di noi, un sussulto di forze naturali ha disteso una scrittura che nessuno sa più leggere in periferia, e insieme alla disperazione risalgono i paralleli non solo le tempeste. La terra sotto i piedi si muove. I confini sono fili di un ragno nell’ombra che aspetta. Da noi c’è una aria perpetua da concorso, da noi ci si distruggerà in piazza, sotto casa, l’oroscopo è l’articolo più letto dei giornali, noi, la ciliegina di un albero tagliato. Dal punto di vista dello schianto tutto è pronto, sulla scena un uomo, la verità e il compianto. E tu piangi qualche volta come piangono i cani come te altre bestie scodinzolano a milioni davanti alla follia dell’uomo e fate feste ai padroni. Ma la fame ha il privilegio dell’ignoranza, la povertà quella dell’innocenza, del resto si pensa di aver vent’anni fino a ottanta, quando smuove il gorgo del livore dentro il pensiero di un volta, quella volta. Quando si ama lo si fa per tutta la vita la vita che dura lo spazio di un grido e così quando si ama lo si fa fino alla morte, Si muore spesso e poi si scopre aveva torto, la morte, quell’uomo, la verità è una menzogna. Quando si odia lo si fa con tutte le forze ma è un amore che abbiamo dimenticato, quando si ha paura invece non si ama, si muore, un poco alla volta, lentamente. Si vive di fantasmi fotografati nella penombra del passato si vive, delle cose che non muovono più niente, fasi della luna, di intermittenza, di zero e uno di mediocri dittature, è lavoro, è opposizione, si vive di quello che capita il giorno dopo di discorsi leggeri e di sentenze folgoranti, respirando dal naso per non smettere mai di ascoltare l’ultima condanna in televisione. Si vive e si muore. E non si sceglie. Gli altri fanno uguale e in questo girotondo il volante, nel silenzio, è un sabato come tanti. Aveva diciotto anni. Ed era buio. Una ferita, ormai una cicatrice, forse un giorno, una finestra sul mondo a cui affacciarsi e salutare Dio che si sbuccia le ginocchia, in cortile, d’estate, quell’estate, e poi rientrare per l’ultima volta in casa fra la noia ritornare e la violenza, fra i ricordi e le speranze. Uscire? No, lasciate pure un messaggio. |
Milano, 29-08-2002
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Riccardo Bagnato [www.bagnato.it]
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